Andrich
l’ho avuto a figura il primo anno dell’artistico, all’Accademia. Mi ha (ci ha)
insegnato a disegnare. Non parlava molto. Ti capitava alle spalle, ti spingeva
un po’ in là e si sedeva nel tuo sgabello. Per prima cosa guardava con aria
sconsolata la punta della matita e te la faceva rifare. Poi ti” spegassava” il
foglio segnando alcuni punti, tracciando
uno o due contorni del modello e delle campiture di ombre decise tali da
sovrapporsi agli stentati “sghiribissi” che con tanta fatica avevi buttato giù
nelle ore precedenti. Poi si allontanava, preferibilmente senza dirti niente.
Il più delle volte, per incoraggiarti, ti faceva un sorriso ironico, sempre
trasversale, com’era tutta la sua figura. Superato lo shock, ti ritrovavi a
fare i conti con dei segni che ti riaprivano la visione sulla figura (gesso o
volto o modella) che stavi copiando. Tutto era più evidente, immediato,
plastico, luminoso. Come non averci pensato prima. Ora potevi ricominciare da
capo, meglio con un foglio nuovo. Per lui disegnare era “lavorare”. E prima di
lavorare era “guardare”. Bisognava educare lo sguardo. Capire e comprendere
come era il modello; come si “muovevano” i lineamenti e come “correva “ la
luce. E il segno che facevi era sempre troppo rigido (la matita “non è un
chiodo” – amava dire) e troppo incerto. Un vero maestro, nel senso di capacità
d’insegnamento. (L’opposto del divismo narcisista imperante in altre aule). Il
feeling con i ragazzi e le ragazze a cui piaceva disegnare nasceva presto.
Allora si guardavano anche libri, opere moderne, si scambiavano opinioni su
cosa era di valore e cosa invece no. Insomma, quando la scuola era la nostra
scuola, Lucio Andrich era il nostro professore.
Arch.
Paolo Cacciari
Lo ricordo nel suo fare rude e affabile; è stato anche mio insegnante di figura al primo anno del Liceo Artistico di Venezia. Da lui ho imparato l'importanza del segno.
RispondiEliminaMarilì Menato